Se oggi pensiamo al giallo per antonomasia spontaneamente viene in mente un libro, dallo sfondo giallo appunto, con un cerchio rosso che racchiude una bella illustrazione, e probabilmente quella tempera porta la firma di Carlo Jacono. Per oltre trent’anni, dal numero 108 del del 10 febbraio 1951 fino al numero 1952 del del 20 giugno 1986, quel giovane diplomato all’Accademia, approdato in Mondadori per felice intuizione del direttore storico Alberto Tedeschi, ha firmato le copertine della più diffusa rivista italiana del settore, quel “Giallo Mondadori” che nel 1929 aveva collegato per sempre un colore al genere poliziesco e investigativo.
Jacono ha illustrato, per lo stesso editore, anche la collana di spionaggio “Segretissimo” e molti romanzi di fantascienza della mitica rivista “Urania” (comprese numerose illustrazioni interne) e pur essendo la sua attività di artista molto varia, il suo nome resta legato a quei gialli che, peraltro, leggeva pochissimo. Anche a lui è accaduto come a Walter Molino con le copertine della “Domenica del Corriere”, o come a Kurt Caesar prima, e a Karel Thole dopo, per “Urania”: associare, settimana dopo settimana, il proprio nome e il proprio stile a una testata di grande successo genera un’identità che l’autore può gradire o meno, a seconda che la viva come gratificazione o come gabbia.
Tutti gli illustratori che hanno lavorato per le collane popolari mondadoriane caratterizzate dal cerchio (giallo, spionaggio o fantascienza che fosse) si sono scontrati con lo stesso problema tecnico: vincere la battaglia con quel cerchio, “l’unica cosa che in trent’anni non ho ancora digerito” confessava Jacono in un’intervista alla rivista “WOW” nel 1979. E l’unica via praticabile era non tenerne quasi conto, “applicandolo” solo alla fine e, spesso, suggerendolo soltanto, ridotto a poco più di un settore circolare.
I ritmi e i tempi della produzione editoriale erano tali, negli anni '80 era arivato a realizzare 14 copertine al mese, da non consentire agli autori, nella maggior parte dei casi, di leggere le storie che dovevano illustrare. Alberto Tedeschi raccontava avventurosi aneddoti a proposito di trame raccontate per telefono, di foglietti di appunti di poche righe, di parole-chiave buttate lì per dare un minimo di soggetto al disegnatore perché ci fosse qualche elemento in comune tra testi e disegno. Potevano derivarne travisamenti e malintesi di tutti i generi, ma ai lettori era sufficiente avere una bella immagine di genere, spesso solo simbolica. Del resto quelle copertine venivano spesso riutilizzate all’estero per titoli completamente diversi, motivo per cui alla descrizione rigorosa di una scena del romanzo si è andata sempre più sostituendo un’immagine generica svincolata da qualsiasi testo.